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Il blog di Oreste Patrone


La mia vita non è una gara

Qualche giorno fa ho visto un video di Michele Mezzanotte, psicoterapeuta e autore della pagina Instagram omonima, nel quale commentava il filmato di un bambino che, durante la simulazione di una partita di calcio, tentava più volte di segnare ma veniva sempre fermato da un portiere adulto. A quel video sono seguite molte reazioni indignate di persone convinte che l’uomo avrebbe dovuto lasciarlo vincerle e altre, di segno opposto, convinte che l’uomo avesse impartito al bambino una lezione di vita.

Michele Mezzanotte, invece, diceva che dipende dal bambino e aggiungeva che, se quel bambino è naturalmente portato alla competizione, da quell’episodio – e dalle reazioni di frustrazione e rabbia che ha vissuto – potrebbe attingere per migliorarsi, per porsi un obiettivo. Se invece sente la competitività come qualcosa di estraneo, quell’esperienza rischia di minarne la sicurezza. 

Questo episodio mi ha fatto riflettere.
Io ho passato metà della mia vita a cercare di giustificarmi con gli altri per la mia mancanza di competitività e di pulsione agonistica. Mi sono sentito per anni fuori posto e sbagliato. Non aderivo a quella mentalità performativa, mi era estraneo lo zelo autolesionistico di certi miei compagni durante gli allenamenti e venivo percepito come privo di grinta, qualità che in certi ambienti fanno di un giovane una promessa. Ma io ero semplicemente diverso: mi interessavano altre cose. Non ho mai pensato che l’agonismo o la competizione fossero negativi in sé, anzi, ma li sentivo lontani dal mio modo di essere.

L’idea che la vita fosse una gara, una sequenza di traguardi da raggiungere, mi è sempre stata estranea. I miei obiettivi, quelli che davvero contavano per me, potevano essere raggiunti solo con la calma, con la riflessione, restando fermo in un posto a guardarmi dentro. Questa consapevolezza è arrivata col tempo, all’inizio ero solo un ragazzo che si sentiva in qualche modo sbagliato, senza strumenti per capire. Lo dico oggi, da adulto, e soprattutto da genitore. Perché ora che vedo crescere mio figlio, mi sforzo ogni giorno di ascoltarlo. Non solo per capire che cosa gli piace, ma che cosa gli serve, che tipo di persona è. Ha provato lo sport, gli è piaciuto, ha anche partecipato a competizioni di un certo livello con buoni risultati, poi ha scelto di lasciare per dedicarsi ad altro. Io rispetto questa sua decisione, perché credo che nessun modello di crescita vada bene per tutti. Credo che prima di tutto vada ascoltata la persona che abbiamo davanti.

Per certi versi, oggi potrei dire di aver avuto successo – non nel senso in cui lo intendeva mio padre, che aveva investito molto su di me sperando che diventassi qualcosa di più di quello che sono oggi, che guadagnassi di più, che arrivassi più in alto nella scala sociale. Non ho fatto nulla di tutto questo. Guadagno meno di quanto lui si aspettasse – molto meno. Sono nondimeno molto fiero della mia formazione, di alcuni ambiti in cui credo di aver raggiunto un livello di eccellenza e di aver trovato una serenità interiore che per me vale moltissimo.

Anche in questo, la presenza di chi mi è stato vicino è stata fondamentale per aiutarmi a capire cosa contava per me. Non c’è un giusto e uno sbagliato, c’è solo il cercare di non imporre a qualcun altro ciò che ha funzionato per noi, perché ciò che è stato utile a uno può essere tossico per un altro.

Scherzando, dico spesso che se non esistessero persone competitive non avremmo nulla da guardare in TV: né partite, né corse, né gare. Ma, probabilmente, anche se fisicamente avrei potuto essere un buon ciclista, non avrei potuto esserlo davvero. Mi mancava quella fame, quella spinta interiore che caratterizza chi vive di competizione.

Ognuno ha il suo percorso e credo che vada rispettato. Sempre.

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2 risposte a “La mia vita non è una gara”

  1. Benvenuto nel club collega 🙂

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    1. Grazie. Bentrovata 😊

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